martedì 19 maggio 2015

Morte di un uomo felice (Giorgio Fontana)


Non mi è piaciuto. Non so neanche perché. ma ho chiuso l'ultima pagina sentendomi insoddisfatto. Colnaghi, il protagonista, è un deus ex machina troppo perfetto, teso oltre che a scoprire i terroristi colpevoli dell'omicidio di un collega, anche a capirne le intime ragioni, i sentimenti, i pensieri. un magistrato integerrimo, un uomo dimidiato ma composto, purtroppo talvolta risultante a me empatico come il fumo che esce dalla sua inseparabile pipa. Manierato a più non posso, con improvvisi squarci di scrittura elegante ed illuminata, composita, levigata ma troppo lucente da potersi definire vera. Una potente esemplificazione di un accurato editing oppure un mirabile esempio di manierismo datato ma pur sempre efficace?

Uno Stoner, per certi versi, per accostarlo a recenti casi editoriali,  ma più granitico, meno umano, troppo meno umano, quasi trascendente ed immanente da risultare più un dipinto, che un racconto.


Non a caso, specie nelle parte centrale, il romanzo si arena e si incastra in maniera quasi letale nel rapporto tra Colnaghi e Dio e su riflessioni abbastanza vintage sulla giustizia divina e quella umana, senza che ciò porti sbocchi narrativi interessanti o pensieri filosoficamente rilevanti. Emblematici e rapidamente tratteggiati gli umanissimi colleghi, da quelli d'ufficio a quelli lontani per lavoro. Troppa pietas, troppo tutto al posto giusto.


Perfette, davvero non scalfibili e tanto meno empatiche le due amicizie di Colnaghi, il libraio ciclista amante della vita e scanzonato ed il collega smaliziato e vendicativo, perfetti altereghi per far risaltare la luce mai opaca di quest'uomo alla fine anche nei dubbi tutto di un pezzo, così egocentrico da amare  moglie e  figli senza amarli veramente, immerso nel lavoro e nel suo animo riflessivo tanto da accusarsi senza però mai scontare una pena e continuando imperterrito nella sua solitaria caccia alla beatitudine eterna, incurante che i mortali hanno bisogno anche di carne e contatto umano, 

oltre che di spirito. Per finire poi al padre Ernesto, ucciso dai fascisti quando Colnaghi era in fasce. I pezzi sui partigiani e sulla morte del padre restano forse quelli più limpidi e vivi, non pervasi da questa ieraticità stentorea, ma da impulsi, passioni, ideali, sbagli e schiaffi, oltre che amore e carezze. Per chiudere denotando come gli anni di piombo e la politica sono un meri escamotage narrativi che però rimangono opachi e inerti e  non innervano di vita le pagine. Troppo brillante per essere dotato di luce propria.

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