giovedì 4 dicembre 2014

Sostiene Pereira (Antonio Tabucchi)


Sostiene Tabucchi che ci sono innumerevoli possibilità di viversi il proprio malessere intellettuale ed esistenziale. E che sia universale infatti che nascosto, magari in soffitta, nel cuore o nel cervello, non si abbia un angolo ribelle, un angolo che brama e concupisce un mondo diverso, migliore. 




Almeno una volta, nella vita ciascuno di noi è sfiorato dall’ideale della giustizia, dell’ardore, del bello e basta. 

Così, questo Pereira, solitario lettore di letteratura ottocentesca, in una Lisbona sotto la dittatura Salazar negli anni trenta, lo scopriamo rassegnato a vivere quieto e rassegnato, buttando giù necrologi di artisti e traduzioni sulla pagina culturale di un foglio di regime, e divampando come un bimbo al ricordo tenero e quasi commosso di un amore ormai lontano come solo la morte può allontanare. Pereira infatti è solito monologare con la moglie defunta attraverso una fotografia custodita gelosamente: "Ciao amore mio, vorrei tanto sapere come stai". E’ l’unica persona a cui si confessa e che pare ascoltarlo. Pare. Anche perché non può rispondere ed il nostro dottore malinconico non può che rispondersi da solo sdoppiandosi nella figura della moglie, non cercando così il mero suo ricordo, bensì uno specchio in cui materializzare le sue puerili ossessioni, la sua placida dignità, il suo estremo pudore, il. 

Un onesta e dimessa non vita che si trascina, insomma. Ma in Letteratura non è mai detta l’ultima parola e, come diceva un acuto osservatore del calibro di Oscar Wilde, la vita imita l’arte. 
Gli ineffabili percorsi del vivere infatti offrono su un piatto d’argento al nostro dottore, tra l’altro anche malaticcio per una di quelle forme di aggravio della misantropia acuta, una insperata occasione: conosce un giovane ribelle comunista, con la sua compagna, e tra paternalismo e paura, diverrà un loro méntore ed aiuto materiale, mentre la polizia segreta é sulle loro tracce. 
Pereira, è vero, specie con la moglie, sostiene che certe cose non si fanno. 
Ma sostiene altresì che se non si fanno mai, non vale la pena di fare niente. 
Bisogna pur vivere, qualche volta. 
Ed allora c’é tempo per morire, dice Pereira, io voglio vivere. 
Certo, gli si possono fare tanti appunti, é sempre distratto, compiaciuto dalla sua smorta malinconia, beve solo limonata mentre ogni tanto un bel drink perlomeno darebbe un fremito al suo torpore. 
La sua lenta catarsi pertanto ci avvince e ci vince, ci trasporta, là, con lui, e non conta che invece nel libro siamo in clima di seconda guerra mondiale in un paese con un regime totalitario, questa è una storia universale, non conta più nulla, conta il profumo di umano desiderio e passione che si respira, ci riscalda quel fuoco sacro e vivido del perseguire un ideale. E’ un trasporto inebriante. senza retorica, senza politica, senza inutili orpelli. E riusciamo anche a comprendere e talvolta perdonare, sorridendo benevoli, alle amene riflessioni sull’esistenza dell’anima e sulla putrescenza della carne, domande senza risposta che Pereira continua imperterrito a farsi. 
La galleria di personaggi di contorno è semplicemente deliziosa e funzionale, quasi troppo perfetta, sembra un dettato sul come si costruisce una storia attorno al personaggio principale, dalla portiera impicciona e delatrice , al medico che dovrebbe curare i problemi cardiaci di Pererira ma che invece ne solletica gli istinti passionali e ribelli, un approfondimento e una variazione sul tema del dottore che si muove fra le pagine di Nessuno scrive al colonnello di Marquez, tanto per fare un esempio e ricordare il noto amore di Tabucchi per le atmosfere lusitane e sudamericane. 
Lo stile infatti ricorda spassionatamente scrittori latino americani o portoghesi, e qui l’autore paga dazio alle sue letture, ma il ritmo è scorrevole, la prosa fluida, la durata ideale. Si tratta di un piccolo romanzo semplicemente maestoso, lineare quanto intenso, l’ideale per riassaporare il gusto di quella narrativa che comunque ti lascia il segno pur senza ferirti. Sempre che ciascuno abbia voglia di riandare a rispolverare nella soffitta del cervello quel piccolo angolo di ribelle che in realtà vive più o meno in esilio nelle inesorabili e continue vite borghesi. 
Impersonato da un Mastroianni esemplare in un successivo film che nulla toglie e nulla aggiunge al libro, caso più unico che raro, questa è una lettura appassionante pur nei ritmi lenti, educatrice seppur né retorica né dall’incidere isterico, una celebrazione colta e raffinata della dignità delle voglie umane, un inno alla libertà di pensiero nel rispetto di regole che non devono essere imposte, ma condivise, certi che qualunque atteggiamento o gesto letterario può parimenti esser o solo esteticamente goduto oppure invece issato a vessillo, a segno, a destino. 
La maestria sta nella lineare costruzione che si avvolge nel suo castello dorato, orpellato dai continui incipit con "Sostiene Pererira". Eppure questa ciclicità narrativa non precipita in un pozzo senza fondo, quasi stritolandosi da sé sul come e sul quando senza mai agire ed agirsi, ma si spiega improvvisamente, senza nessuna accelerazione, verso un finale epico e minimalista nel contempo, che svolge funzione catartica e inebriante. 
Viene lecito domandarsi quale estro archetipico abbia fatto sì che Tabucchi sia riuscito a impersonificare in quest’ uomo invecchiato, in questo amebico e rassegnato letterato d’altri tempi la forza e la dignità dello scrivere, nell’assegnare alla parola scritta quella forza e capacità di cambiare la sorte, i destini e i pensieri e degli esseri umani. 
Lo scrittore italiano infatti, professore di letteratura portoghese, nell’arco di una produzione pluridecennale, aveva sempre messo in mostra notevoli qualità letterarie quasi sempre in racconti brevi, una versione contemporanea del saggio e vecchio professore cultore delle belle arti, ma in realtà dotatissimo e finissimo acuto interprete di alcuni mali generazionali ma anche eterni delle strutture della società e delle architetture mentali dell’uomo, e qui arriva a condensare il tutto in questa confessione né amara né dolce del Dottor Pereira, amabile quasi vecchio che torna giovane e riesce persino a dare prurito alla voglia di sognare. Semmai, se capita, glielo chiederemo, facendo i complimenti per un testo editato nel 1994 con la Feltrinelli in un tempo cioé ricolmo di miscele deliranti di stili, in pieno clamore di giallo e pulp, nella invitante orgia di echi e rimandi coniati e costruiti per altri media quali la televisione. 
Messaggio vibrante dunque, quanto malinconico, poetico quanto desueto, ai tempi d’oggi, dove le parole sono bit, dove la comunicazione é immediata, dove non conta il messaggio ma il contesto. Un nobile tentativo di riaffermare quello di più nobile che c’è nell’animo umano: la forza, la speranza, il desiderio, l’anelito ad essere vivo.

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