giovedì 28 novembre 2013

Fiesta (Ernest Hemingway)



American dream. Poco dream oramai, dall'11 settembre 2001 in poi. Ma gli Usa già con il crack del 1929 avevano seriamente visto mettere in crisi i loro bellicosi propositi di cambiare il mondo per dominarlo. Ed un'intera generazione di scrittori vibranti e dotati diede voce alle paure, agli sconforti, ai dubbi, ai rimorsi.

Ernest Hemingway, forse famoso per altre opere, qui forse raggiunge il vertice della sua capacità narrativa secca e senza fronzoli, essenziale, scarna ma incisiva come una frustata.
Storie di uomini forti oppure persi, di donne fatali eppure ormai strangolate dalla loro fatalità. La storia è sul binario Parigi-Spagna, in particolare la zona di Pamplona ed i Paesi Baschi. Protagonisti un manipolo di anglo americani allo sbando.





 Come quando fuori pioveva  e tu mi rimandavi

Già. L'abbiamo sempre mitizzata, ne abbiamo fatto un'icona e gli abbiamo messo un nome, "American dream" . E così gli Stati Uniti sono stati fermanente (ed eternamente) radicati nei nostri modi di intendere ed agire, facendo sì che l'oceano Atlantico si riducesse ad un mero torrentello montano. Cianciando a vanvera e dimenticando palesi abissi fra la nostra storia e la loro abbiamo identificato gli Usa come nostro padre, nostra madre e nostro fratello, come il paese dei balocchi e della cuccagna, tutto hamburger, star-system e grattacieli protesi a sfondare il cielo nonché NBA e autostrade infinite.
Ma gli Usa hanno vissuto (e stanno vivendo anche oggi, come credo sia lampante) anni duri ed amari, lacerati e confusi da profonde crisi interiori, come per esempio negli anni Venti dello scorso secolo, anni del primo dopoguerra che videro nel 1926 pubblicare questo splendido, intenso, romanzo di un semi esordiente Ernst Hemingway, testo vivido e a suo modo lirico, come solo certa prosa può snocciolare momenti intensa poesia, dal titolo originale "Il sole sorge ancora".
Uno, Hemingway, già allora non completamente ignoto alle cronache specie mondane, amico di altri narratori di cristallino valore come Fitzgerald (cui qui paga qualche pegno al "Grande Gatsby") e Dos Passos, che diedero vita a quella generazione perduta di romanzieri dediti a lacrimare ed a urlare i mali di una nazione che cominciava a vedersi dentro ed a provare quasi orrore, in certi casi. Sic transit gloria mundi.
La storia è sul binario Parigi-Spagna, in particolare la zona di Pamplona ed i Paesi Baschi. Protagonisti un manipolo di anglo americani allo sbando. Brett, la mantide poco religiosa, donna che si dà più che prendersi, causa un aspetto che le facilita il compito e produce vigorose scosse ormonali, poi l'io narrante Jack, epico e frustrato, causa malanno fisico rimediato in guerra che lo ha reso impotente, Bill, suo bestiale fraterno amico di vecchia data, capace di bere come un cammello senza avere la gobba, uomo senza molti "ma" e "perché", classico americano in vacanza in Europa dagli slanci furibondi e dalle quasi tenerezze inaspettate, poi ancora lo scrittore perduto ed asettico come un profilattico, l'ebreo Cohn.
Con in più lo scozzese Michael, che di per se di mestiere fa il fallito, come ama ripetere senza affatto arrossire sfuggendo una sterminata folla di creditori sparsi in mezzo mondo.
C'è n'è per tutti e c'è n' è di più. Lo schizofrenico plotone dedito alla spietata esecuzione del proprio suicidio morale ed emotivo, è fortemente agitato da una perpetua voglia di movimento a qualunque costo. Parigi annoia, le terre natìe sono distanti più che per chilometri per noia, ed allora ci si dedica accanitamente a scappare pur non essendo inseguiti da nessuno
Brett deve sposarsi con Michael, flirta pesantemente con Cohn che ne rimane stordito ed è innamorata di Jack pur sapendo di non poterlo amare in quel senso fisico che fa la fortuna e l'eternità di ogni amore. Pur talvolta detestandosi, girando l'Europa in lungo e largo senza avere i soldi per una gita in barca, lasciandosi e riunendosi in un tira e molla turbinoso ed ammaliante, il gruppo non si sfalderà mai lungo la narrazione.
Ed è intorno alla donna, oltre che alle bevute che si snoda e si incentra la storia e le efferate titubanze, divagazioni, incertezze di lei smascherano e mettono a nudo, quasi tatuano come su pelle viva sulla pagina le mostruose ed incancrenite debolezze degli uomini che la affiancano, tutti invischiati in un dolce far nulla di sapore nichilista e racchiudente un vertiginoso vuoto dentro.
Quel che poi cesella il tutto e scolpisce un'opera da leggere assolutamente se non si vuole perdere uno da ascrivere ai classici, è lo stile hemingwaiano, che alterna rapide e secche descrizioni naturalistiche del paesaggio e dei movimenti della gente nonché a volte quasi minuziosi resoconti degli ettolitri di vino ed altri alcolici trangugiati a iosa durante le 250 pagine con asciutti, densi, vivaci, avvolgenti dialoghi, ora caldi e scalmanati ora freddi e compassati, che danno tono e vigore all'intera narrazione.
E tra una scazzottata, una bevuta ed una memorabile "fiesta" di Pamplona lunga una settimana, tra corride e balli ubriacanti, non potremmo mai non essere rapiti dai ritratti mai languidi o pallidi ma dalle tonalità forti ed accese di questi personaggi assolutamente realistici tanto da sembrare veri e non "fiction", esseri umani ruvidi, ripidi e rapidi ed indomabili quanto deboli e fragili nelle loro umane concupiscenze.
Facile dire splendido, abusato il termine di magnifico, certo che a più di ottanta anni dalla sua uscita questo romanzo non lascia vedere una ruga. Troppo spesso Hemingway, successivamente, si è lasciato andare a toni da predicatore nel deserto, da Omero stelle a strisce, epicizzando ora questo ora quel valore morale o affettivo. Lo stucchevole "Il vecchio e il mare" ne è una lancinante riprova, tanto famoso come romanzo quanto povero e balbettante nei contenuti (rimando qui alla memorabile, motivatissima e irriverente stroncatura che fece il sociologo della letteratura Dwight McDonald), al pari per esempio di un altro svenevole testo ritenuto (a torto, a mio parere) un caposaldo della narrativa moralisteggiante, quel "Siddharta" di Hesse che aiuta solo a castrarsi senza usare il bisturi o le forbici.
Questo dunque il tutto. La romanzata versione di fatti poi accaduti veramente (il canovaccio della storia riprende per filo e per segno vicende capitate ad Hemingway sul serio l'anno prima e da lui trascritte in appena sei settimane, tanto che all'uscita parigina dell'opera chi si riconobbe immediatamente nel romanzo gli tolse il saluto, oltre che maledirlo in eterno per la colossale sputtanata) è comunque un' imperitura testimonianza degli agi e degli affanni di una generazione che soffriva la guerra passata e non credeva nel futuro, specie negli Usa, issati come bandiera del progresso e della libertà ed in quegli anni vittime di restrizioni pesanti della capacità autonoma di pensare e di agire. Basti pensare al proibizonismo e quello che ne scaturì nonché la lotta fervente contro comunismo e soprattutto anarchici. Di ciò fu esempio in quegli anni il brutale e drammatico processo a Sacco e Vanzetti, anarchici italiani  assassinati sulla sedia elettrica per le loro idee politiche più per i crimini che gli vennero  imputati in maniera inverosimile. E l'american dream svelò l'altra faccia,quella dell'incubo.
Si parla anche di amore e d'amicizia, in maniera schietta e limpida, con frustate e poi carezze lascive, ma forse stavolta non sono i sentimenti e le voglie a fare da traino alla lettura, ma questo sconsiderato disordine che anima le menti e i cuori di ciascun protagonista e che dà folle vertigine fino al finale aperto ed emblematico.
Rimandi, ripensamenti, tempeste che alla fine finiscono e fuori non piove più, il sole sorge ancora ma chissà per quanto e allora lasciamoci riscaldare perchè - citando Vasco Rossi - qui si può solo perdere ed alla fine non si perde neanche più. 

Pubblicata su diversi siti, la prima volta su www.ciao.it il 24.08.2008

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